Ricordi di Francis Bacon

thumb_largeEra il 1996 quando, in vacanza a Parigi, vidi una grande retrospettiva su Francis Bacon al Beaubourg. Fu quella che si dice una botta di culo – e chi lo sapeva! – perché va da se che all’epoca internet esisteva sì, ma mica ce lo avevamo tutti a casa come ora, e tantomeno in tasca (un milione di anni fa…). Francis Bacon, rétrospective, questo il titolo. Semplice. Era morto da poco, nel ’92. Già conoscevo e amavo le sue opere: il compianto Giulietti, professore di pittura dell’Accademia – protagonista e grandissimo interprete di buona parte del ‘900 italiano – ci aveva dato da leggere quel fantastico libro che è Francis Bacon – La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester, che consiglio a chiunque voglia farsi un’idea di cosa vuol dire fare delle domande a un artista. E anche chi voglia approcciarsi alle opere e al pensiero di questo gigante, pietra angolare del secolo scorso.

Della mostra ho un ricordo vivido, me la gustai da solo. Cadeva proprio nel momento giusto per me, artisticamente parlando raramente questo accade. Mi serviva e mi servì molto. La mia pittura ne risentì particolarmente, ance se poi ho (apparentemente) cercato inseguito perseguito tutt’altro. Ma fu come consolidare delle idee. Lo è sempre quando si guarda i grandi: ti danno certezza, con il loro creare destabilizzante. Funziona per paradossi, non so, sei sicuro che va bene quel che fai, comunque lo fai e che va bene essere incerti. Ricordo sempre una sua frase che mi culla e rincuora: bisogna imparare a sfruttare i doni del caso. Ecco, ahhh…

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Eccolo lì, l’Innocenzo X degli anni ’50, seriale e ossessiva riproduzione del «ritratto più bello del mondo», quello di papa Innocenzo X di Velázquez (che sta alla Galleria Doria Pamphilj a Roma, maestoso davvero, da vedere assolutamente una volta nella vita) trasfigurato e per sempre urlante.

Ecco un autoritratto, magma facciale letteralmente smontato (usava uno strofinaccio sul lavoro finito) scomposto e ricomposto secondo leggi aliene. Tutto rigorosamente dietro un vetro separatore, come lui stesso voleva che si vedessero le sue opere. Perché bisogna sforzarsi, il riflesso ti costringe ad avvicinarti, a vedere meglio, a focalizzare meglio, a cambiare un poco il punto di vista. Ci vuole impegno, per guardare le opere d’arte, l’ho imparato da lui. Ci vuole impegno sempre con l’arte. Ricordo che sorrisi con una sorta di complicità, quando applicai questa “regola”.

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E poi, il contino e personalissimo riferimento a Rembrandt (ancora il Seicento…), e dunque a Soutine, con quarti sanguinolenti e massicci, qui massimamente contorti, ma più leggeri, quasi inconsistenti. Sempre in bilico, sono in atto forze mostruose (anche quelle). La tensione è data soprattutto da questo: espansione forzata, rigonfiamenti al limite. Il colore è come un oggetto esso stesso, traduce, evidenzia e spinge al limite tutta la precarietà delle composizioni; la caducità della vita, appunto come nei pittori del Seicento (ancora). E poi il cubismo, tradotto agilmente e superato con stile originale, proprio. Picasso, certo. Si scompone e si ricompone, ancora. Ma anche Caravaggio (Seicento): nature morte viventi. E sofferenti.

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Ecco i trittici: assordanti grida come sottovuoto, inaudibili, impossibili da sentire con le orecchie, dunque manifestazioni silenziose e intime (Vermeer? Seicento) del dramma; soggetti mostruosi ma eleganti, fermi e composti, ordinati. Puliti. Senz’altro per questo inquietanti.

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C’è sempre un minimo scarto nelle cose, nelle figure, un gioco d’equilibrio sottile, sempre un accenno lieve, spesso impercettibile. L’arte non è che questo, del resto: una piccola cosa. Sta nel minimo, si concentra lì, in un unico punto. Ma produce il massimo. Espandendosi all’infinito.

Raffaele Boni 2020

 

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