Ilaria del Carretto, il monumento non funebre

Vado spesso nel Duomo di Lucca a vedere il monumento funebre di Ilaria del Carretto, almeno una volta l’anno. Credo dovrebbero farlo tutti quelli che, appassionati d’arte, abitino non lontano dalla città delle mura. Tra l’altro, in quella Cattedrale si possono ammirare altri capolavori, io principalmente colgo l’occasione per apprendere sempre nuovi insegnamenti dall’Ultima cena di Tintoretto, capolavoro che vibra di luce propria, esplosione di colori impastasti con la maestria che solo il grandissimo veneziano sapeva fare. Ma torno alla scultura di Ilaria, cioè a Jacopo della Quercia, che l’eseguì nel 1406 alla morte della donna, o meglio ragazza visto che aveva soli ventisette anni, su commissione del marito Paolo Guinigi signor di Lucca in quegli anni: anni in cui stava nascendo una nuova coscienza culturale e che in seguito venne chiamato rinascimento, ma che in ambito artistico aveva già iniziato a manifestarsi diversi decenni prima, specialmente nella scultura con la grande scuola pisana… Ma questa è un’altra storia: il monumento, il sarcofago, si trova nella sagrestia della Cattedrale, sulla destra dopo l’entrata, una saletta apposta per lei pensata negli anni novanta (del novecento) e che permette intelligentemente di osservare e di godere di questo capolavoro. Possiamo infatti girarle intorno, avvicinarsi abbastanza, osservarne gli effetti plastici e di luce da diverse angolazioni, sederci in contemplazione. Stiamo con lei insomma. L’opera, benché come detto contribuisca a gettare le basi del rinascimento, è squisitamente gotica, del miglior gotico francese, borgognone, frammisto a quello senese. Gli elementi di novità rispetto alla scultura funeraria dell’epoca sono l’abbandono di baldacchini e figure di riempimento celebrative e soprattutto la tridimensionalità: nel contesto italiano ma anche internazionale i sepolcri di persone celebri si facevano per essere visti da un lato solo, lunga la figura distesa magari un po’ inclinata verso l’osservatore, spesso addossati a pareti; qui si semplifica, o si alleggerisce il tutto, la figura rimane la defunta, basta, si concentra su di essa la nostra attenzione, sola ad eccezione del cagnolino ai piedi immancabile a testimoniarne la fedeltà coniugale. Dicevo ci vado spesso, e ogni volta cerco di capirne di più: come mai questo sia un capolavoro, come mai i capolavori sono capolavori, come si fa a dire che l’opera d’arte è un’opera d’arte, che cos’è che fa di questa scultura arte; cosa sono gli elementi che ne determinano la bellezza, di questa e di tutte le altre cose, manufatti, che chiamiamo arte, che gli affibbiamo questa etichetta. Penso che nel caso di Ilaria sia che Jacopo della Quercia non abbia rappresentato una morta, ma una viva; chiaramente non poteva rappresentarla da viva, specialmente se gli fu chiesto di eseguire un monumento funebre. Ma l’arte sta lì, il compito dell’artista è quello: rappresentare una cosa e volerne dira un’altra, eseguire un fatto e volerne sottendere un altro. L’artista è quello al quale questo riesce. Ilaria è rappresentata viva: sì lo so, è distesa, ha gli occhi chiusi e le mani incrociate sul ventre, sta lì ferma, ma non son d’accordo con chi dice, e premetto che su quest’opera non ho letto mai granché, che sia in un sonno perenne. Nulla mi fa pensare a un sogno, un incanto. Nulla, a partire dalle vesti, tesissime, stan su paiono inamidate, come se fossero di una figura eretta e non distesa; lo scatto nervoso dei piedini, vero, lasciano intendere dei calzari lì sotto il manto, ma son rappresentati come cunei, aguzzi e vivi e pronti a sostener un peso. Nulla è rilasciato, rilassato, nulla è cadente, nulla va giù qui. Piuttosto, l’intenzione pare l’opposto, ogni cosa sa di solido, corposo, i guancialetti sodi, i riccioletti serpentelli vibranti, la fascia sostiene un petto ben compatto. Anche il cane scatta con la testa e guarda all’insù, non sta mogio e rassegnato, come se stesse per obbedire ad un ordine di qualcuno dall’alto. Ci pensavo, e vedevo gli occhi chiusi, il candore del bel marmo ben scolpito, curato, levigato, amato, perfetto: mah, sarà ormai la suggestione pensavo, ma quelle mani, mi par che un qualche scarto vitale le abbiano anch’esse, nelle dita, un accenno minimo, di più non si poteva fare, s’ha da rappresentare una morta. Eppure. Ma tra il colletto dell’abito, veramente alto, e il copricapo, disposto in simmetria, si forma una V dal quale esce il viso. Pensavo, gli occhi son chiusi, ma che cos’è questa nel suo insieme se non una rappresentazione di un occhio, un occhio aperto, con la pupilla-volto incastonata tra le palpebre-colletto/copricapo? Eyes wide shut… Son pensieri miei, son pensieri forse inesatti o acerbi o ingenui. O forse no. E forse non c’era questa come intenzione, i fattori che ne determinano la bellezza e l’essere opera d’arte sono altri e più alti. Ma questo è quello che penso, quando guardo questa mirabile opera, e tutte le altre.

Raffaele Boni 2023